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INTRODUZIONE AGLI SPETTACOLI

di Gioacchino Palumbo

Ho suddiviso gli spettacoli, tappe di un cammino unitario, in tre insiemi: il primo sul mito greco, il secondo, quasi tutti testi originali, sul teatro della necessità delle arti, il terzo sul teatro dei luoghi e delle storie, il quarto sugli spettacoli- studi drammatici, molti dei quali su autori del novecento. Come ho scelto questi testi? O i racconti o gli altri materiali letterari a partire dai quali prendere spunto per creare una messa in scena? Sarebbe riduttivo rispondere genericamente che questi testi mi piacevano, o che li trovavo interessanti.

Mi è adesso più chiara l’idea che, nella scelta dei testi da cui salpare per un nuovo viaggio, ciò che ha determinato e determina la mia decisione non era il fatto di avere già una lettura intellettuale da proporre,  ma piuttosto la percezione precisa che quel testo contenesse qualcosa che andava scoperto, rivelato, come un terreno da dissodare, da cui può emergere qualcosa di prezioso, un ritrovamento archeologico, o qualcosa nascosta da bambini. E anche che quel testo offriva opportunità, semi drammatici, nuclei tematici in sintonia con quegli aspetti della scrittura scenica che in quella fase avevamo bisogno di sperimentare, approfondire, mettere alla prova, sottoporre a tentativi e verifiche.

Ad esempio, se il nostro intento era quello di lavorare più in particolare sulla creazione di partiture di movimento espressivo, il materiale drammaturgico doveva essere adatto a questi obiettivi, cioè contenere dei “semi” per delle sequenze di azioni. O se volevo esplorare il rapporto tra parola e sequenze musicali, anche il testo doveva avere una musicalità che si prestasse a questa ricerca. (O se) In altri progetti, in cui volevo raccontare un frammento del passato di un luogo, delle sue leggende e miti, avevo bisogno di una storia che evocasse personaggi, e domande, che scaturissero dalle fessure tra le pietre e le luci di quello scenario. O, altrove, se era più urgente una domanda sul senso del nostro fare teatro, in un mondo che sembra non averne bisogno, emergevano racconti, resoconti, diari, o testi scritti durante la creazione dello spettacolo, dove risuonavano le stesse domande, le stesse urgenze espressive.    

Un testo è come un territorio, una città, una foresta, un isola da esplorare. Lavorare su un testo ti dà una conoscenza di quelle pagine che nessuno studio teorico ti può dare. Chi ha fatto un’ esperienza autentica di pratica teatrale, di messa in scena o di laboratorio, sa che è così. Conoscere, in questo senso,  significa esperire, fare esperienza. Addentrarsi in un testo, provarlo giorno dopo giorno, incontrare un po’ alla volta i suoi personaggi, osservare i suoi ambienti,  è come  scoprire una città dove non siamo mai stati,  coi suoi odori, sapori, luci, angoli, stradine, voci, cadenze, nenie, racconti. Una città da guardare con lo sguardo acuto e attento di Ulisse, con la sensibilità letteraria di Walter Benjamin, con l’ attitudine mentale di Mejerchol’d, che diceva che un attore deve saper essere un viaggiatore anche nella sua stessa città d’ origine, con la curiosità per i tratti non omologati di Pasolini, con l’apertura e il rispetto di Terzani.

Non serve a niente attraversare un testo con lo sguardo avido o annoiato di un turista, che vuole solo rubare qualche bella immagine dietro il vetro del autobus. Bisogna avere la pazienza e il coraggio di toccare con mano, di incontrare esseri umani, di girare per i mercati, di conoscere il pulsare della vita di quel mondo.

Alcuni testi-territori si svelano lentamente, a poco a poco. A volte bisogna essere come i contadini, lavorare le pagine con calma, arare a fondo la terra, fargli prendere sole e aria, familiarizzare in profondità. La psicotecnica della improvvisazione della memoria del personaggio è un modo per addentrarsi in questo mondo, cominciare a renderlo vivo, a dargli corpo, nervi, anima. A volte bisogna lasciare che il testo ci parli, che ci riveli rimandi, connessioni, nuclei emotivi ricorrenti, rapporti col contesto storico, domande esistenziali.

Non credo più che la regia sia sovrapporre una serie di trovate sceniche  più o meno indovinate e pertinenti, per lo più cerebrali e spesso falsamente originali. Mi interessa molto di più mettermi in ascolto, aspettare che il testo-territorio mi riveli i suoi segreti, cercare la forma essenziale che li lasci trasparire con tutta l’ immediatezza possibile.     

Fare lo spettacolo è come creare un mandala, quei disegni fatti con la sabbia colorata dai monaci buddisti, a volte sul pavimento della corte di un monastero, che richiedono una dedizione estrema, una pazienza tenace, una cura per ogni piccolo particolare. E che sono una pratica di attenzione. E poi, come per i mandala, non appena l’ opera è finita, lasciare che il vento la disperda. 

Il teatro è un luogo dove la cultura può diventare vivente. Una cultura vivente dove il confine tra il sapere e l’esperienza si assottiglia, dove il fare cultura si trasforma in   uno strumento per vivere più intensamente, più pienamente, con più comprensione, più consapevolezza, più attenzione e più apertura verso l’ altro. Dove un libro, un racconto, un mito, una poesia, un canto, un’ opera , possono avvicinarci all’ essenza della esistenza umana. E il contrario di un modo di intendere la cultura che invece rischia di allontanarci dalla vita, di costituire un filtro o una barriera di difesa, di appesantirci, di addormentarci, di farci evitare le domande importanti, di chiuderci all’ ascolto dell’ altro.

Mi rendo conto sempre di più che nella mia attività registica e di pedagogo la parola chiave è “maieutica”. La maieutica come metodo, ma anche come allenamento dello sguardo, dell’ intuito, dell’ascolto, per scoprire il modo in cui far emergere la vita, o far risuonare una verità . A volte basta una piccola frase, un contatto di sguardi, un breve esercizio con la voce, il cambiamento di una postura, una immagine suggerita, una messa a fuoco di un intento, una improvvisazione che sblocchi l’ energia del corpo, e, all’ improvviso, qualcosa affiora dall’ inerzia.

In fondo una delle questioni centrali dell’ arte drammatica, dell’ arte dell’ attore, è quella della presenza,  di “ essere o non essere ” presenti alle cose semplici, concrete, vere. Così come ci accade nella vita. Noi crediamo di essere coscienti, di essere presenti, ma in realtà non lo siamo veramente, non vediamo le strade che percorriamo, o la persona che ci sta di fronte. E non siamo neanche presenti a noi stessi, perché i pensieri meccanici ci sballottano da una parte all’ altra, una critica o una lusinga ci trascinano di qua e di là, o ci fanno bruciare l’ energia che potremmo avere per essere più presenti.

Un gruppo di teatro, di un laboratorio o di uno studio drammatico, è come un gruppo di contrabbandieri. Mi vengono in mente i contrabbandieri de L’amante dell’Orsa maggiore di Sergiusz Piasecki. Sempre in viaggio, sulla strada, per i sentieri di campagna, per percorsi sconosciuti,  per superare delle frontiere, senza farsi notare, senza farsi ingabbiare o rinchiudere. Solo che una compagnia teatrale, se fa un vero lavoro, tenta di superare le frontiere tra la dispersione della vita di tutti i giorni e la densità della realtà immaginaria, tra l’ inerzia e lo sforzo creativo, tra una distrazione inconsapevole e una più alta qualità di attenzione, tra il mondo quotidiano e quello della invenzione  poetica. In fondo è quasi un atto magico, un passaggio da una dimensione all’ altra. I contrabbandieri di Sergiusz Piasecki a volte ridono, bevono scherzano, ma c’è  sempre una parte di loro che deve essere vigile, pronta a fiutare l’ aria, a sentire  un rumore sospetto, a vedere una traccia, o un piccolo segno sul terreno. A passare in pochi attimi da uno stato  di rilassatezza ad uno di allerta, di vigilanza, di presenza. E’ così che vorrei i miei gruppi di creazione drammatica.

 

 

 

 


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