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Le testimonianze

 

   Franco Battiato - Galatea Ranzi - Giovanni Calcagno  - Donatella Finocchiaro - Juri Camisasca - Amalia Contarini -
  
Elena De Luca - Sara Cabibbo - Maria Luisa Iachello - Pina Salomone - Riccardo Mondo

(Da Gioacchino Palumbo “ Il teatro del Molo 2 – Diario di bordo – Laboratori e Studi drammatici “ edizioni Bonanno. )

Nelle pagine che seguono vengono riportati scritti, lettere, testimonianze di alcune persone che hanno collaborato con il Molo 2 e/o partecipato ai laboratori.

Tra queste testimonianze quelle di Franco Battiato e di Galatea Ranzi, con i quali ho avuto la felice opportunità di lavorare insieme, quella di Giovanni Calcagno, un attore che oggi ha alle spalle importanti esperienze nel teatro e nel cinema nazionale, che ha a lungo frequentato da allievo i laboratori teatrali e che, da professionista, ha lavorato in numerosi spettacoli del nostro Teatro ( Il quadro delle Meraviglie, La vittoria di Re Martino, Antigone, Le Mosche, Bianca di Navarra, Voci su Medea); le note di Donatella Finocchiaro, attrice ormai affermata nel cinema italiano, che, allieva per molti anni dei corsi-laboratori teatrali del Molo 2, dove si è formata, ha interpretato i ruoli di protagonista negli spettacoli  Il giardino dei ciliegi, Le mosche, Frida; le note di Yuri Camisasca, musicista e compositore, collaboratore di Franco Battiato, che ha composto ed eseguito dal vivo le musiche dello spettacolo  Nastienka e il cantore; la lettera  di Amalia Contarini, anche lei attrice, allieva nei laboratori di recitazione, per me indimenticabile Clov  nello studio drammatico su Beckett  Non può essere che noi si abbia un qualche significato;  le impressioni e le riflessioni di Elena De Luca, storica dell’arte, docente dell’ Accademia di Belle Arti, allieva nei laboratori di creazione teatrale degli ultimi anni; il breve scritto di Maria Luisa Iachello, insegnante di lungo corso e performer, che ha frequentato per molti anni i laboratori di espressione corporea; le note di Pina Salomone, psichiatra, che ha partecipato al Workshop da me condotto alla Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’ Università di Catania, con la quale abbiamo continuato ad avere proficui rapporti di collaborazione; la lettera e la relazione di Riccardo Mondo, psicoterapeuta junghiano, che a frequentato i laboratori di espressione corporea e drammatizzazione e con il quale ho, in seguito, realizzato diversi progetti in alcune comunità terapeutiche

 

Testimonianza di Franco Battiato

Un'altra specie di teatro

Gioacchino Palumbo esegue da quasi trenta anni, incurante delle reali difficoltà ambientali e senza alcun affanno, il suo "teatro", dovunque. Insegna e fa 'stages' e i suoi luoghi, di volta in volta, sono un cortile, una sala, un molo o un teatro. Basta dare un'occhiata all'elenco dei suoi spettacoli. Spesso unendo vari autori, attraverso un lavoro d'invenzioni a più voci, ha creato nuove drammaturgie... perché  egli  insegue verità e non modelli. E' certo che se fosse nato in qualche paese del Nord Europa il suo talento per la ricerca avrebbe avuto ben altri sostegni e spazi e una compagnia e un teatro, permanenti.

Franco Battiato (musicista e regista)


 

Note di Galatea Ranzi

“ Al Teatro del Molo 2, nel lavoro con Gioacchino Palumbo,  nel suo linguaggio, ho ritrovato parole che considero punti chiave del mio lavoro di attrice: intensità, rigore, ascolto. Ascolto attento, ascolto del testo, delle risonanze interne, ascolto della musica che nasce tra le parole e le note musicali . Intensità, le emozioni dietro le parole. E rigore, senso della misura, che è anche rispetto delle parole dell’autore, delle sue intenzioni, del suo mondo, capacità di annullarsi al servizio del testo, senza sovrapporre il proprio io, il proprio ego, le proprie elucubrazioni. Lavorare sul rapporto tra poesie e musica, come in Fiori allegri, è  uno degli interessi più vivi nel mio lavoro di attrice”.

Galatea Ranzi (attrice)


 

 Testimonianza di Giovanni Calcagno

Avevo già maturato delle esperienze di spettacolo nell’ambito del cabaret, ma quando mi ritrovai al primo incontro fui come sorpreso dalle prime indicazioni di Gioacchino al gruppo : prendere un posto nello spazio, in piedi ma senza tensioni, emettere un suono vocalico vibrante.

Ecco: corpo e voce, è impossibile farne a meno per ogni viaggiatore.

Con questi due elementi partiamo per il primo esercizio di perlustrazione. Immerso nel concerto di suoni degli altri compagni, mi sento cantare e vibrare nel petto. E’ un attimo senza tempo, perché d’ora in poi saprò che in viaggio il tempo ha tutta un’altra intensità.

E poi ancora muoversi nello spazio disordinatamente e con un certo vigore, scuotere le membra e lasciarle in balìa di un movimento vivace fino al comando di uno stop. Un battito di mani secco e preciso.

Fermarsi, immediatamente.

Fermare tutto, lo sguardo, ma anche ogni falange, ogni battito di ciglia.

Solo respiro dapprima affannato, poi, nel silenzio, un approdo.

Un piccolo punto di osservazione di sé.

Comincio a sentirmi nel braccio, nel polpaccio, nel petto, nella mano.

Posso sentire la Vita che scorre e richiamare un flusso d’attenzione normalmente rivolto verso l’esterno. Getto un primo sguardo dentro.

Non mi sembra di formulare alcun giudizio. Sono vivo, punto e basta. 

Il laboratorio è finalizzato alla messinscena di Antigone di Sofocle.

Credo che, di questi tempi, avere sei mesi da dedicare allo studio di un classico così importante nella storia della nostra civiltà sia un grande privilegio.

Rimango molto colpito da una osservazione di Gioacchino : considerate i personaggi della tragedia non solo come individui, ma anche come elementi che compongono un medesimo paesaggio spirituale.

Ciò significava dire che dentro di noi convivono Antigone e Creonte, Eteocle e Polinice, e Ismene, Tiresia, Emone.Siamo composti cioè di forze spesso in contrasto reciproco che si alternano nella gestione del nostro controllo.

Che scoperta meravigliosa!

Con l’intervista al personaggio diamo una voce a queste forze.

Chi viene intervistato sta al centro della sala, parla in prima persona a nome del personaggio che interpreta.

Il gruppo lo sottopone a un martellamento di domande.

L’attore dà al personaggio la forma e lo spessore delle sue risposte, viaggia all’interno di un’altra psiche, osserva i comportamenti di quest’altro io, fino al gusto di sorprendersi delle proprie reazioni.

L’esplorazione è intensa, accurata.

Gioacchino ci racconta di un episodio accaduto durante le prove di uno spettacolo di Stanijslavskij ( l’inventore, appunto, di questo esercizio ) : ad un attore che interpretava la parte di un gondoliere e che aveva pochissime battute nello spettacolo,  il regista russo chiese di raccontare tutta la storia della vita del suo personaggio !

Capisco bene, oggi, a distanza di anni, perché non esistono piccoli o grandi ruoli, ma soltanto piccoli e grandi attori.

Giovanni Calcagno (attore)


 

Testimonianza di Donatella Finocchiaro

 “… Nel Laboratorio del Molo 2, dove mi sono formata, diretta e guidata da Gioacchino Palumbo, ho appreso e sperimentato il metodo della improvvisazione strutturata. La capacità di improvvisare è stata fondamentale non solo sul palcoscenico ma anche nelle mie interpretazioni cinematografiche. La vita sul set è tutta un'altra cosa, rispetto al teatro, ma  in realtà non si inventa nulla. La preparazione è indispensabile. Sono stata più che agevolata dalle mie esperienze formative e dai miei spettacoli col Molo 2, e per questo rendo grazie ai laboratori di Gioacchino sulle tecniche drammatiche … “

Donatella Finocchiaro (attrice)
(note estrapolate da una intervista di Giuseppe Condorelli pubblicata su Centonove


 

Note di Juri Camisasca

Il testo drammaturgico dello spettacolo " Nastienka e il cantore", che prende spunto da un breve racconto di Rilke, fortemente impregnato di misticismo, narra della trasmissione di canti millenari che i cantori eseguivano nei villaggi del Caucaso e della Russia. Espressione della spiritualità e della saggezza popolare, quelle melodie penetravano nelle più segrete profondità dell’ anima. Durante le prove Gioacchino mi dice che non è interessato a composizioni musicali che rimandino a specifiche zone geografiche. Mi chiede delle melodie semplici, dei canti che siano l’eco di mondi interiori. Ho scelto di utilizzare un Harmonium indiano, per creare delle sonorità avvolgenti. Sulle sue note lunghe improvviso con la voce delle melodie che sono il frutto del mio “sentire”. Inoltre, per infondere nel canto delle modulazioni ritmiche, sperimento la tecnica della “lingua inventata”, con gruppi consonantici alternati a vocali molto dilatate…
Durante lo spettacolo percepisco come il pubblico partecipi con assorbimento meditativo. E’ un opera scenica piena di poesia. Sottolineando le misteriose risonanze che intercorrono tra la musica e lo spirito dell’ uomo, la messa in scena di Gioacchino ci suggerisce che, pur in un mondo così caotico come quello attuale, le tematiche che riguardano la nostra intima essenza hanno ancora un loro spazio. Parlandoci dei viandanti-cantori ci ha ricordato che la vera gioia è terra di conquista delle anime semplici.

Juri Camisasca (compositore)


 

Testimonianza di Amalia Contarini

Credo di avere appreso, al Molo 2,  delle tecniche, una disciplina, un rispetto per il teatro che pochi sanno insegnare. Il teatro non si fa solo su un palco con il pubblico, si fa in quel qualsiasi luogo dove si studia, si costruisce, si ascolta, ci si ascolta, si sperimenta il sé di ognuno di noi, si toccano gli spazi e le persone, ci si fida, si soffre, si tace, si vive intensamente. Ecco Gioacchino Palumbo mi ha insegnato tutto questo..a lavarmi le mani dopo un giorno di lavoro e guardare che scorre via acqua sporca,  nera perché si lavora; e quando mi capita di dovermi lavare le mani dopo una giornata di prove e l’acqua non è di quel colore, sento che non si è lavorato nel modo giusto.

Amalia Contarini  ( Attrice)


 

Testimonianza di Elena De Luca      

… Al terzo incontro, dopo aver fatto una lettura con S., ed aver improvvisato un monologo interiore, Gioacchino ci ha lasciati scivolare in una seconda lettura leggermente drammatizzata. Per alcuni secondi mi sono sentita più spontanea che in tutto il resto della mia vita. Una sensazione nuova, pacificante e naturale, molto profonda.

 Il percorso è ciò che conta.  La dedizione attenta che dedichiamo ai modi, agli strumenti, agli episodi, alle persone, all’ascolto. Quasi impercettibili le risonanze e le sfumature cromatiche affiorano. Ci accorgiamo come siano forse da sempre state lì, in un punto indistinto di noi stessi, pazientemente, ad attendere  un varco.

 La comunicazione avviene attraverso concetti molto semplici e densi, pregnanti. Non si tratta di un viaggio solo in se stessi. Sarebbe riduttivo trattare tale esperienza in questi termini, poiché il teatro nella dimensione della pratica della recitazione, oltre che della testualità, così come Gioacchino Palumbo lo articola, è  un’esperienza pluridimensionale che investe quasi tutti i livelli di azione, riflessione, consapevolezza, mobilità corporea, creatività. Questo è il messaggio netto che mi arriva.

In qualche modo siamo già avvolti da una dimensione di profonda concentrazione ed equilibrio.

Gioacchino ispira un senso di profonda fiducia e facilità. Non esiste l’ombra del giudizio o del pregiudizio. La competenza emerge priva di gravami superflui e la sua persona rimane accostante, seppure sobria.

L’insegnamento della recitazione sembra avvenire attraverso l’ascolto interiore dei partecipanti.  L’ascolto intellettuale, emotivo ed intuitivo dei loro timbri, gli echi, le risonanze più intime in tutti i  loro registri. Una indiretta maieutica sta già promettendo di agevolare i nostri accordi.  Si viene invitati a indagare movimenti, spazio, emissione sonora, risonanze interiori, tutto come se si fosse incoraggiati  a nuotare nell’elemento della scena, a prendere familiarità con essa come si fa con l’acqua da bambini. Perdendo dopo la memoria di come sia realmente accaduto.

Intuisco come G.P. tenga  salda l’alternanza fra teorizzazione e pratica, fisicità e verbo, vicinanza e distanza, vuoto e pieno, in altre parole l’interfaccia di ogni polarità interiore, sollecitando la fluidità tanto quanto il controllo. 

La regia credo che in lui rimanga sempre e comunque la pratica di questa indagine infinita e mai uguale a se stessa che gli allievi stessi sollecitano, poiché sempre diversi, per età, tipologia, temperamento, attitudini.

Si tratta di un agire fluido e facilitante, seppure in ogni momento avvertito, attraverso il quale G.P.  non dirige, ma piuttosto, in questa fase iniziale, si adopera per favorire un accordo fra gli elementi, sia pure appena emersi alla luce. L’allievo attore è a suo agio, si manifesta, viene a conoscenza di suoni e risonanze ignote che gli appartengono. Gli elementi disgiunti  potranno creare nuove sinapsi, nuovi accordi, e forse presto parteciperà ad una selezione dei medesimi.

La pratica seguita da G.P. procede per sottrazione,  pulisce e lascia nitido  ciò che è essenziale comunicare, sia verbalmente che corporalmente.

La recitazione sembra possedere in sé quella scheggia di solidità e di intensa consapevolezza artigianale che può rendere equilibrata anche la follia. Forse di questo si tratta.

Leggiamo. Alcuni di  noi iniziano la lettura di un brano e veniamo lasciati andare come barchette di carta sul pelo dell’acqua, reagendo ad ogni spostamento d’aria, sia pure lieve.  Barchette rigide nella propria fragilità, tutte tese a percepire.

Pensiamo a capire il testo, il resto resta sul fondo. Soltanto a tratti affiora, quando la voce rispecchia per un momento il senso dei pensieri unito a quello delle parole. Allora avverto di aver sfiorato l’incantesimo, irripetibile,  che condensa per un secondo soltanto, in un attimo di equilibrio, una vita intera.

“[…] per trovare la vita segreta di un azione autentica, di una azione intera, integrata, si pone  un problema di equilibrio tra l’ energia che va verso l’ interno, collegata alle memoria emotive, e l’ attenzione concreta, non generica, non finta, verso l’ esterno. E’ necessario un movimento dall’ interno verso l’ esterno, e dall’ esterno verso l’ interno. Dal fondo del nostro essere verso il prossimo che abbiamo di fronte, e dalla realtà viva che ci circonda fino alle fibre più profonde di noi stessi. E, paradossalmente, questo tratto personale diventa allora collettivo, archetipico, interumano, connesso con l’ umanità, con la nostra condizione esistenziale elementare , con la nostra pasta umana, con le sorgenti della nostra vita psichica e organica, con le radici della nostro essere. Una possibilità meravigliosa di abitare completamente l’ esperienza.  La sincerità, in fondo, è una scienza.”   (Gioacchino Palumbo:  Principi Ricorrenti )

L’approccio mantenuto al Molo2, basato sul metodo di indagine di Grotowski, mi sembra rivolto a restituire il senso della dimensione esistenziale in itinere. La dimensione del cammino nel teatro grotowskiano viene sottolineata attraverso il fare, l’agire, l’esperire, le molteplicità inscritte in ciascuno di noi, fino a  condurre  al limine incerto, quasi indistinto, della verità dell’attore creativo e dello straordinario universo della rappresentazione. Non  mimesis, non replica, ma  realtà.  Il teatro diventa un luogo più reale del reale, nel quale poter disporre le une vicine alle altre, le schegge di noi stessi. I pezzi  frantumati, e ricomporre la frammentazione e l’estraneità che avvertiamo. Si può ribadire, lottare, criticare, urlare, sussurrare, indicare, celebrare fino ad entrare nella dimensione rituale del mito. Un’aspetto cruciale e profondamente presente nell’indagine che G.P. ha portato avanti nel tempo.

Il suo approccio, perseguito con intensa e vigile partecipazione, per così tanti anni, credo che costituisca la splendida testimonianza di un percorso coerente di approfondimento attraverso lo strumento della recitazione e del teatro. Il riduzionismo non ha casa al Molo2 ed il valore affascinante e motivante della complessità è accolto senza paura. 

Elena De Luca

(Storica dell’ arte – docente Accademia di Belle Arti)


 

 Testimonianza di Sara Cabibbo

… ho preso a frequentare Molo 2, attratta dalla possibilità di incontrare il mio corpo che, pur al centro delle teorizzazioni e delle pratiche del femminismo, era restato marginale, incapsulato dall’approccio intellettualistico con cui avevo tentato di conoscerlo e di farlo parlare. Forse perché ero rimasta un po’ “borghese” – come mi dicevano alcune compagne, e come io temevo, con un certo imbarazzo, essere vero, – sapevo di essere alquanto bloccata nel lasciargli esprimere sentimenti, pensieri, pulsioni e sensazioni, e nell’affidare a tutta la voce che avevo parole e idee congrui all’emozione del momento. Non ricordo se la decisione di frequentare il laboratorio fosse il frutto di un passaparola fra amiche, o di una scelta fatta dopo aver assistito ad una performance, ad una conferenza, dei suoi fondatori. Ciò che ricordo con certezza è il piacevole stupore provato nella conoscenza dei due responsabili del Laboratorio del Molo 2, non depositari di verità e certezze apoditticamente date, essi mi sembravano esprimere, con il discreto orientamento degli esercizi proposti, un desiderio di esperienza e di riflessione su di essa, che accomunava realmente noi – i corsisti –, e loro – i «maestri». Quando una volta Gioacchino disse di essere «un po’ credulo», provai la sensazione di aver dato per la prima volta un valore positivo ad una inclinazione, che era anche la mia, a fidarsi degli altri, ad essere disponible a punti di vista che interferissero con le proprie certezze mettendole in crisi: un senso di liberazione rispetto alla disciplina, volontariamente accettata, delle parole d’ordine della politica e del femminismo.

L’ambiente dove si svolgeva il laboratorio era spazioso, ordinato, piacevole (certamente ero rimasta un po’ borghese!). Ricordo di aver notato anche questo nei primi giorni, misurando la distanza che correva fra lo spazio rassicurante e gradevole in cui si svolgevano i nostri esercizi, e gli ambienti brutti, sciatti, e poco attraversati dall’amorevolezza della cura per i luoghi in cui si esprimevano l’identità e i valori di una generazione che voleva costruire “un mondo migliore”: le stanze dei partiti, la cui bruttezza e trascuratezza non dipendevano solo dalla scarsità dei bilanci, ma dalla noncuranza per lo spazio abitato e vissuto da individui e idee.

Gli ambienti di Molo Due, dunque, si coniugavano perfettamente con le attività che vi si svolgevano e con la disposizione fisica e mentale di chi cercava i modi di espressione del linguaggio del corpo. Qui, i gesti che lentamente, e senza pressioni da parte dei “conduttori”, affioravano dalla fiduciosa emersione della spontaneità che ciascuno di noi riusciva ad esprimere in quel dato momento e in quella situazione data, si facevano interpreti di una ricerca di equilibrio di cui prendevamo progressivamente consapevolezza, probabilmente ognuno con i suoi tempi.

Non so quanto io sia stata precoce nel recepire con tutta me stessa che la posta in gioco era la ricerca di un equilibrio, composto di spontaneità, emozionalità, riflessione intellettuale. Ricordo però con certezza alcuni esercizi che mi facevano percepire in qualche modo quest’obiettivo. Quello che, per esempio, nella mia memoria è rimasto come l’esercizio del punto fisso: un aggirarsi silenzioso per lo spazio con sempre maggiore libertà e disinvoltura, cambiando direzione bruscamente o dolcemente, trovandosi alle spalle o di fronte compagni diversi, correndo o procedendo lentamente, muovendo a volontà le braccia, la testa e tutto quanto il corpo o lasciando che prevalesse la compostezza, ma scegliendo di volta in volta un punto fisso a cui guardare, come momentaneo e necessario radicamento ad una realtà che si muoveva a seconda della direzione e del ritmo scelti da ciascuno di noi.

Libertà, concentrazione, percezione di sé e di sé in rapporto agli altri. Percepivo un misto di spaesamento nel trovare il mio corpo impegnato a fare movimenti spontanei dettati dall’emozione del momento (timidezza, allegria, vergogna, stanchezza e via discorrendo), e di concentrata attenzione su quel punto fisso, che implicava l’attivazione di un meccanismo di autodisciplina, che mi proteggeva dalla paura di non ritrovare me stessa.

Fu strano quando, nello stesso periodo, trovai queste stesse parole – spaesamento e coscienza di sé – nei libri dei grandi storici francesi che parlavano della necessità del dépaysement, nell’immergersi nel passato e nei suoi documenti senza la chiave delle proprie categorie interpretative, eppure pronti a richiamarle per ricostruire come, quando e attraverso quali relazioni e intrecci si erano formate e avevano orientato il nostro modo di interpretare la realtà. E poi c’era un altro esercizio – quello per cui ero capace di fare un totale arco all’indietro, appoggiandomi ad un muro o alla stipite di una porta – che mi aveva fatto scoprire le possibilità di lentezza e cautela dei miei gesti e del mio corpo, solitamente proiettato in avanti, a negare con la velocità e la risolutezza dell’azione le difficoltà, gli ostacoli, i tentennamenti e le perplessità.

Anche la respirazione, le tecniche di rilassamento aiutavano la mia voce a farsi consapevolmente veicolo delle sensazioni, dei ricordi suscitati dalla lettura di un testo o dall’ascolto degli altri, dalla rottura del silenzio o dalla fine di un esercizio particolarmente impegnativo. E le parole con cui mi viene di riguardare all’esperienza maturata in quei luoghi e con quelle persone sono leggerezza, rispetto, stupore, attenzione, fiducia, ed anche allegria. Per il viaggio intrapreso con consapevole incanto.

 Sara Cabibbo

(Docente di Storia moderna. Università di Roma Tre)


 

Testimonianza di Maria Luisa Iachello

Era l'autunno del 1985, un'amica mi invita ad assistere ad una lezione di espressione corporea tenuta da Gioacchino Palumbo presso il Teatro  Molo 2 di Catania,  in via Oliveto Scammacca  43 ...  Ne rimango entusiasta!
Oggi comprendo che era quello che il mio corpo e la mia anima cercavano: uno spazio dove poter essere finalmente me stessa. Dove, invece del  gesto codificato della danza o del gesto stereotipato del quotidiano, si andava alla ricerca del gesto "originario",  del proprio gesto.
Mi ha carpito a tal punto che ho seguito i corsi di Gioacchino per circa sei anni consecutivi. Poi, tra una gravidanza e l'altra, per quattro anni ancora. Infine mi fermo.
Ma... nel frattempo divento insegnante di scuola primaria e, nei diciotto anni di carriera scolastica, propongo corsi di espressione corporea, sia in orario meridiano che antimeridiano. I miei allievi ne rimangono entusiasti.
Oggi ho  quarantatre anni, sono mamma di quattro figli e posso testimoniare che l'esperienza dell'espressione corporea condotta in quegli anni in quello sgangherato, magico posto che era il Molo 2  è rimasta inscritta nel mio corpo e nella mia anima.
Lì ho imparato l'autostima, il rispetto dell'altro nell'assenza di giudizio, la capacità di ascolto, la flessibilità del corpo, la voglia di creare.

Maria Luisa Iachello (Insegnante)


 

Testimonianza di Pina Salomone

Scopriamo di esistere nel percepire la nostra presenza nel mondo e prima ancora nell’essere percepiti da coloro che ci circondano. L’impatto tra il sé proprio ed il sé degli altri è fonte di continue e varie emozioni.Il costante ripetersi di questo evento è uno dei fondamenti della nostra esperienza.L’approdo al Molo 2 ha acceso i riflettori sulla mia esperienza dell’impatto con il prossimo, mi ha riproposto, alla moviola, la percezione che gli altri hanno avuto all’impatto con me, mi ha obbligata ad una lunga riflessione sulla delicata e pericolosa danza che preclude all’impostazione della rete di relazioni in un gruppo, ha ampliato la percezione interiore del mio movimento e di quello della gente intorno a me. Molti altri doni ho ricevuto da questa esperienza, ma l’attenzione mai sufficientemente grande alla presenza di ciascun individuo ha contrassegnato tutta la mia successiva attività.

Pina Salomone ( Psichiatra )


 

Testimonianza di Riccardo Mondo

Sono passati venticinque anni circa dal nostro primo incontro, e ne serbo ancora una traccia intensa nei significati e contemporaneamente densa per la qualità affettiva che ha caratterizzato in quegli anni la collaborazione con te e con il Teatro del Molo2. Questo è stata un’ instancabile fucina di formazione professionale, di una quantità insospettabile di individui che oggi si occupano dei campi professionali più svariati. 

Sicuramente il Teatro del Molo 2 ha avuto un ruolo essenziale nella mia fermentazione immaginativa.

Ricordo anche la nostra collaborazione in ambito psichiatrico, erano i primi anni novanta , e creammo , in tempi e modi  pioneristici  per il territorio, un laboratorio di espressione corporea nella Comunità La Grazia nel territorio di Caltagirone. Sono passati oltre quindici anni  ma vedo ancora  la gioia e la gratitudine di quegli individui, chiamati pazienti psichiatrici, che abituati all’immobilità e al noioso gironzolare nei corridoi, attendendo che le ore trascorressero, cominciarono a sperimentare l’energia contenuta nelle attività del  laboratorio del Teatro del Molo 2.  

Valga per tutti l'esempio di Paola di anni 26, giunta alla nostra osservazione circa un anno fa con la diagnosi di schizofrenia, che presentava notevoli episodi deliranti con tematiche persecutorie su sfondo sessuale. Paola evitava qualsiasi forma di contatto fisico sopratutto con gli uomini; a volte autolesionistica, si picchiava, si prendeva a schiaffi, si tirava i capelli, rifiutava spesso il cibo.

Oggi continua a presentare tali deliri ma con una minore frequenza, entra in contatto con l'operatore e piange durante questi scompensi psicotici e lo abbraccia per poi riprendere più rapidamente contatto con la realtà. Ha una maggiore cura del suo corpo e del suo abbigliamento, sono scomparsi gli episodi autolesionistici e a volte saluta l'operatore con un bacio affettuoso. Da qualche tempo sta anche affrontando con lo psicologo reali tematiche riguardanti la sessualità. Ciò che più colpisce l'osservatore è la sua aumentata  "presenza fisica " nelle relazioni. Sta anche accettando di partecipare al gruppo che pratica attività sportive cosa che prima veniva sistematicamente rifiutata. Ultimo elemento della nostra osservazione è quello relativo all'aspetto formativo dei nostri operatori : questi più attenti al codice corporeo sono visibilmente meno spaventati dal " contagio fisico " della malattia mentale, e quindi più capaci di ascoltare, di capire e di rispondere alle richieste d'aiuto, riducendo così nella comunicazione la distanza tra curanti e curati. 

Riccardo Mondo ( psicoterapeuta junghiano)

 

 

 

 


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