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Principi ricorrenti

(Da Gioacchino Palumbo “ Il teatro del Molo 2 – Diario di bordo – Laboratori e Studi drammatici “ edizioni Bonanno. )

Nei  nostri laboratori, negli studi drammatici, nella creazione degli spettacoli, ci sono dei principi ricorrenti, non sempre facili da definire a parole, perché impliciti nella pratica del  lavoro, quasi connaturati all’ esperire quotidiano. Alcuni di questi principi, di questi modi di sentire, sono stati “ereditati” dalle ipotesi di lavoro di  maestri come Konstantin Stanislavskij, Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Peter Brook, dai quali non smetto ancora di imparare, che restano i miei interlocutori immaginari con i quali continuo a confrontarmi.

Uno di questi punti fermi è la ricerca  continua di un equilibrio, sempre da riscoprire, tra l’energia vitale e  la disciplina, tra la “spontaneità” creativa e il rigore, tra l’abbandono e la precisione. Ma questi due poli, diversamente che nelle opere di Ibsen e Pirandello, non sono contrapposti  ma convergenti. La tensione che si instaura tra azione vivente e struttura, tra impulso creativo e composizione della partitura è un elemento fecondo. Nella stanza d’ingresso del  Teatro-Laboratorio di Grotowski, come ci ricorda Flaszen, erano riportate le parole di Eraclito: “Ciò che si oppone converge, e la più bella delle trame si forma dai divergenti..”.  

La  parola “energia “ ha una etimologia rivelatrice, en ergo, in lavoro, in ricerca, il fluire della vita e la ricerca di un ordine, di una chiarezza, di una consapevolezza. Possono sembrare parole astratte, ma nell’ operare quotidiano sono qualcosa di estremamente concreto. Senza composizione lo slancio iniziale finisce per disperdersi, per dissiparsi, per diventare caotico. Ma senza ricerca, senza voglia di scoprire, senza improvvisazione, senza esposizione, ci sarà solo una forma vuota, una struttura fredda, cerebrale, di maniera. Così, nella pratica delle prove,  quando sento che il materiale emozionale rischia di disperdersi , o di restare informe e confuso, chiedo sempre ai miei attori o ai miei allievi di essere precisi, di ripetere con calma, di strutturare, di mettere ordine. Al contrario, se percepisco che la forma o la partitura è fredda, prematura, troppo costruita a tavolino, li esorto a tentare di andare oltre, di scomporre, di sorprendersi, di cercare nuove immagini interiori, altre domande, altri ricordi. L’azione creativa presuppone un concreto e tangibile mettersi in gioco, un rischio, un pericolo, un andare un po’ oltre, un avventurarsi  in qualcosa di non prevedibile, di non completamente conosciuto, forse di ignoto. Una sfida. Altrimenti è uno stereotipo, un falso, uno sfoggio inutile di virtuosismo  o di narcisismo. Il training che propongo ha spesso questa funzione, attivare una attenzione diversa da quella che utilizzo nella vita quotidiana, un’ ascolto reale, un’ altra nervatura psicofisica. Non serve ripetere meccanicamente un esercizio, un movimento, una vocalizzazione,  se non sono in un atteggiamento di ascolto, di scoperta, di sfida. Io, da conduttore, cerco di dare indicazioni e stimoli, ma niente può sostituire l’ attitudine interiore, l’approccio personale, lo sguardo interno. Se il training diventa routine, allora è inutile. Se non mi pongo un compito, se non metto in gioco il mio organismo vivente, se non sento, se non cerco di superare un piccolo limite, allora il mio allenamento diventa inerte. Resto in uno stato con poca energia, non entro nel lavoro, en ergo.

“Awareness” è un’altra delle parole chiave del nostro lavoro. Difficile tradurre il termine in italiano. Potrebbe tradursi con “consapevolezza”, che forse, per approssimazione, è il termine più vicino (è Wittgenstein che ci ricorda che il linguaggio verbale procede per gradi di approssimazioni). Ma questa parola ha una connotazione troppo legata alla sfera mentale, al cognitivo, al corticale. Mentre qui si tratta piuttosto di uno stato di chiarezza, quasi di grazia, che è di tutto il nostro essere, un essere svegli, o più svegli, un essere pronti, più pronti, un essere integrati, raccolti, un mettere insieme mente, cuore, corpo, istintività, intuito. Si tratta in definitiva di una qualità di presenza, una qualità di attenzione. Un vero atto creativo, nella pratica teatrale, può comportare, dovrebbe comportare, questa migliore qualità di presenza, questa cura.

 Molti anni fa, nei primi anni dell’attività del Teatro del Molo 2,  ho chiesto a Peter Brook  qualche indicazione, qualche lume, sui criteri per la scelta dei testi da mettere in scena. Nel caso specifico, se questi testi dovessero preferibilmente contenere insegnamenti spirituali, o addirittura elementi esoterici, nuclei tematici  per la crescita personale, per la evoluzione interiore mia, dei compagni di lavoro e degli spettatori. Brook sorrise, accennò alcune considerazioni di carattere drammaturgico, sull’ermeneutica del testo, ma insistette soprattutto su un punto chiave. Più importante ancora della scelta del testo, dei suoi contenuti, mi suggerì,  era la cura, la qualità della presenza, la dedizione con cui li avrei affrontati, con cui li avremmo attraversati. Il sapere artigianale, il mestiere, costituiscono i gradini della scala che ci porta verso l’alto.  Mentre parlavamo eravamo nella sua auto, con la sua consueta generosità mi accompagnava alla stazione, dopo l’indimenticabile  ”Mahabharata”, uno spettacolo di quasi otto ore, che avevo visto senza un solo secondo di distrazione o stanchezza. Era notte fonda, quasi l’alba. Mentre parlavamo Brook stava facendo manovra, inversione di marcia. Anche se lo spiazzo antistante il teatro era molto largo, nel fare retromarcia è andato indietro fino all’ultimo centimetro, quasi sfiorando il muro, senza che ciò fosse necessario. Era solo pignoleria anglosassone? O stava allenando, ancora allenando,  la sua attenzione?  Allora ho cercato anche io di essere  un po’ più presente, di ascoltare con più attenzione, di vedere il primo tenue chiarore del nuovo giorno.

 “Recitare” viene dal latino e significa leggere a voce alta, declamare. Forse è indicativo che, in italiano, questa parola sembri escludere la corporeità dell’ attore, che pure viene da atto, ed è colui che agisce. In molte altre lingue europee il verbo rimanda invece ad un azione, all’ idea di agire, eseguire, così come si esegue una musica, e evoca anche l’idea di gioco: così “to play” in inglese, “jouer” in francese, “spielen” in tedesco.

L’attore raggiunge una più completa espressività drammatica se è presente e se agisce anche con la sua corporeità, con le sue energie psicofisiche. Il che non significa necessariamente un uso eccessivo, espressionista, continuo, del movimento o del gesto. Anche quando resta immobile un bravo attore resta presente al suo corpo, vive sulla scena con la sua interezza bio-psichica. Ed è cosciente non solo di intonazioni espressive, timbri, volumi, cadenze  della voce, ma anche dei piccoli gesti, delle posture, delle azioni fisiche.

Integrazione. Azione integra. Azione intera. Quando un azione è intera? Un’azione è intera se raccoglie e dà unitarietà alle tre dimensioni che compongono l’essere umano. La dimensione fisica-istintiva, la dimensione emozionale, la dimensione cognitiva-intellettiva.  Non si tratta di una schematica sovrapposizione dei tre livelli, di una meccanica mistura di  parole e movimenti. Non si tratta di sovraccaricare la manifestazione esteriore di una emozione. L’atto totale presuppone una presenza integrata, una unità concreta, un essere presente di mente, cuore e corpo.

Come affrontare un testo drammaturgico?  Sin dall’inizio è importante avvicinarsi a un testo con curiosità, con interesse genuino, con un atteggiamento di apertura, di scoperta. Bisogna fare in modo che i pre-giuduzi, gli stereotipi interpretativi, la valutazioni critiche consolidate non influenzino le nostre prime letture. E’ importante attraversare un testo con i sensi svegli, col cuore sgombro, con gli occhi aperti. Attraversarlo come un territorio da scoprire, che può stupirci, in cui possiamo imparare qualcosa di nuovo sul mondo, sulla vita, sull’ essere umano, sulla sua condizione esistenziale, sui suoi pensieri e le sue azioni. E questa attitudine dovrebbe rimanere non solo nella prima lettura ma anche durante le prove. Ci sono aspetti di un testo che possono essere portati alla luce soltanto lavorandoci su, con pazienza, nella sala prove. Solo allora un testo potrà rivelare tutte le sue sfumature, i suoi aspetti più nascosti, la sua bellezza segreta.

E come costruire un personaggio, se la messa in scena lo prevede? (dico “se la messa in scena lo prevede” perché ci sono progetti scenici in cui l’ attore non diventa necessariamente un personaggio. In Europa dopo la pioggia, o in Sogno, ad esempio, potrei dire che gli attori, più che incarnare un singolo personaggio, creavano “ funzioni drammatiche”, o interpretavano partiture performative). L’attore non dovrebbe essere  un esecutore passivo,  ma deve “scoprire” e creare il personaggio. Questo non significa  piegare il personaggio alle proprie manie egoiche, idiosincrasie, abitudini, stereotipi. Al contrario, significa incontrarlo, permettergli di rivelarsi. E al tempo stesso il personaggio è il veicolo attraverso il quale rivelare qualcosa di me, una verità umana tangibile. Se ho in testa un disegno precostituito e cerco solo di eseguirlo, col mestiere, col virtuosismo, il personaggio non avrà vita.

Esistono diverse psicotecniche, che  possono essere insegnate solo se conosciute con grande cura ed esattezza ed esperienza, e che vanno assimilate con calma e a lungo, che mi aiutano a trovare i punti di contatto tra la memoria del personaggio e la   memoria personale, la sensibilità emotiva, il modo di pensare e di reagire dell’ attore. La elaborazione del suo passato, che può essere fatto con la scrittura, o con il monologo interiore, o con le domande del regista e dei compagni di lavoro,  è la modalità che preferisco nelle attività pedagogiche. Per quanto possa ritenere di conoscere già il personaggio, l’improvvisazione, sia per la invenzione delle sue memorie emotive, sia per la comprensione ed elaborazione delle singole scene del testo, è un percorso privilegiato per dare vita, corpo, spessore a un personaggio. Per scoprirne e capirne le reazioni, i comportamenti, le paure, le aspirazioni. E scoprirle e capirle non solo con la parte razionale della mente, ma con la intelligenza fisica ed emotiva. Rispondendo alle domande del gruppo e reagendo e rispondendo da personaggio posso elaborarne pensieri, sensazioni, sentimenti, voci. Le voci. Posso interagire con la voce esteriore, comportamentale, con la parte di sé che il personaggio mostra all’ esterno, secondo l’ immagine di sé che vuole accreditare di fronte agli altri. O posso interagire con la voce interna, che improvvisamente emerge, a volte senza volerlo, più spesso nel monologo interiore. Molte volte quello è il momento di ritornare alla precisione del testo, per vedere come “risuona” quella voce sulle parole definite.

“Intento” è un’altra parola chiave. E’ qualcosa di simile a quello che Stanislavskji chiama il “compito” del personaggio. Per esempio, nella elaborazione di una scena, nello studio della dinamica fra due personaggi, individuare e mettere a fuoco l’intento che muove le mie  azioni significa spesso trovare una chiarezza, un nitore della struttura di azioni, una ricchezza di reazioni interiori. Ma non è un fatto solo cognitivo, mentale. Debbo davvero concretizzare l’ intento in azione. Se sono Emone, (un personaggio dell’Antigone, il suo promesso sposo) debbo davvero cercare di convincere mio padre Creonte a non condannare la mia amata. E non un Creonte generico, vago, ma questo Creonte in carne ed ossa che ho di fronte in questo momento, in questo luogo.

In realtà, nella nostra ricerca, è risultato chiaro che il processo di creazione di un personaggio diventa interessante se, attraverso il personaggio, l’attore ha modo di dare voce a qualcosa che nasce dal  proprio paesaggio interiore, dalla memoria del corpo. Se attraverso il personaggio io posso dare voce a parti di me che non sempre posso esprimere nel vissuto quotidiano. Se la partitura di azioni contiene dei semi per un atto di rivelazione, di sincerità espressiva, di offerta, che però non comporti impulsi narcisistici o esibizionistici, ma, al contrario, è quasi un gesto di umiltà, di coraggio, di rinuncia a nascondersi. Allora si va al di là della finzione, e balena tra le azioni qualcosa, come una verità, che cattura l’ attenzione dello spettatore. Il chiarore di quel piccolo gesto ripaga di tanti sforzi e tentativi e fatiche.

Provo un fastidio quasi fisico per quegli attori che fanno sfoggio di virtuosismo tecnico, che recitano con enfasi vuota, ma in cui non posso scorgere neanche un barlume di vita, di espressione autentica, di rischio creativo. Tutta l’energia va verso l’esterno, non c’è niente che vibra al loro interno, è solo un esibizione tutta esteriore. La tecnica diventa fine a se stessa, anzi diventa un alibi per evitare un vero gesto creativo. Invece che condividere un barlume di verità, questi attori tentano di dominare il pubblico con la loro presunta bravura. Che noia!

L’ improvvisazione è in realtà una modalità di creazione. Forse è più esatto dire che si tratta di un processo di analisi dell’opera e del personaggio attraverso l’azione. Sono convinto che è importante, sin dall’inizio del viaggio attraverso una drammaturgia, non dividere i dati psichici da quelli fisici. E’ chiaro che per un regista, per un conduttore, per un allievo o per un attore è necessario avere una conoscenza approfondita dell’ opera, della sua ambientazione, dell’ iconografia del periodo e della poetica dell’autore. Ma in sala prove bisogna, il più presto possibile, agire, mettersi in gioco. La tecnica delle domande, cui prima accennavo, è uno dei modi per prendere coscienza della situazione drammatica, della condizione esistenziale, della dramatis personae su cui sto lavorando. In questo modo posso assimilare concretamente le “circostanze proposte” dall’ autore per il ruolo che interpreto in ogni singola scena. O meglio, per essere più precisi, in ogni singola sezione della scena, perché le situazioni drammatiche cambiano e si trasformano continuamente. Ma questa assimilazione e questa scansione in sezioni è solo la prima parte del lavoro. Attraverso l’azione improvvisata, verbale, fisica, delle posture, debbo scoprire e appropriarmi dei pensieri del personaggio che creo, delle sue reazioni più intime. Debbo comprendere con chiarezza la necessità di ognuno dei suoi gesti e delle sue parole. Improvvisare la scena senza il testo, prima di saperlo a memoria, è una forma di indagine e di elaborazione fondamentale, necessario per rendere  viva e credibile la “persona” che divento sulla scena. Debbo comporre in modo preciso e palpitante un sottotesto integrato, un fitto tessuto di impulsi psicofisici, una struttura di intenzioni, di “compiti”,  in cui confluiscono le  immagini interiori personali e dell’ autore. All’inizio queste improvvisazioni saranno più libere, senza schema, anche se rigorosamente all’interno delle coordinate indispensabili date dal regista-conduttore. Se l’azione è viva possono sorgere nuove domande, domande giuste, vive, ed intuizione che raramente posso trovare con una analisi “a tavolino”. Attraversare una parte della storia significa essere nell’esperienza vivente, tangibile, che coinvolge la sensibilità personale, le memorie, l’immaginazione attiva. La densità e la verità di un personaggio sono il risultato della capacità dell’ attore di assumerne gli intenti, di mettersi alla prova, in gioco, di agire in prima persona, con immediatezza, nelle condizioni prefigurate. Non si tratta di annullarsi per diventare il proprio ruolo scenico, o di risolvere il personaggio con le proprie capacità mimetiche, ma di lasciare che il testo ci attraversi e mobiliti le nostre risorse, anche quelle spesso sotto-utilizzate.  Solo in un secondo momento, attraverso un confronto attento, si individueranno nelle improvvisazioni quelle  strutture di azioni organiche e motivate, sguardi, intonazioni espressive, che vanno a comporre la  partitura scenica.  Poi, gradualmente, nel corso delle prove di  laboratorio, le improvvisazioni diventano più  “mirate”, e, in questa fase, chiedo di ripercorrere con una certa precisione ognuna delle parti in cui la scena si articola, ma mantenendo vive le capacità reattive e di immaginazione. Il ritorno al lavoro sul testo, parola per parola, sarà allora facilitato da questi “strati” di lavoro. E’ necessario pensare con cura e fare propria ogni parola, capire da dove scaturiscono, sentire perché sono indispensabili, perché sono e debbono essere quelle e non altre. Debbo percepire che c’è una connessione indissolubile tra l’espressione e la motivazione, l’intenzione da cui prende forma. Tutto questo lavoro è un lavoro segreto e appassionante. E’ sempre emozionante veder germogliare nell’ attore questi primi segni di verità, di comprensione autentica. Forse è un lavoro oscuro, non sempre percepito dallo spettatore, a volte più attento alle “trovate” sceniche, agli effetti di regia, ma è lì che risiede la bellezza più nascosta del fare teatro.        

Il teatro è un luogo dove posso mettere a contatto la vita interiore degli esseri umani. E non la parte più esteriore, quella che normalmente mostriamo agli altri, la nostra maschera, ma la parte di noi più nascosta, più personale, la nostra essenza.  E’ un incontro collettivo che può culminare in quello che gli antichi greci, fondatori del teatro occidentale, chiamavano una catarsi. Così almeno la definiva, nella “Poetica”, qualche decennio dopo il periodo dei grandi autori,  il filosofo Aristotele. Anche un solo momento così, difficile da definire, una specie di chiarezza allargata, condivisa, dà un senso a una rappresentazione, a mesi di lavoro paziente e generoso. Forse più che di mettere a contatto si tratta di far risuonare insieme il nostro essere. Perché non si tratta di una condivisione esibita, mostrata, esplicita. E’ qualcosa di più intimo, di più segreto, che va protetto, coltivato, con delicatezza.

Per diversi anni ho pensato che questo dipendesse prevalentemente dal grado di interiorizzazione dell’attore, che, attraverso un corpo e una voce allenati, trasmettevano questa interiorizzazione allo spettatore. Ma osservando la “reazione chimica “ tra l’azione dell’ attore e chi la osserva e la percepisce ( nello spettacolo lo spettatore, in sala prove e nei laboratori e negli studi drammatici i compagni di lavoro), ho intuito che c’ era a volte il rischio che questo processo di interiorizzazione portasse l’attore ad una presenza che, pur lontana da una vuota enfasi recitativa,   risultava un po’ centripeta, troppo concentrata su se stessa, con un eccesso di auto-osservazione che rendeva più difficile il contatto tra i mondi interiori.  Continuo a ritenere indispensabile il lavoro di interiorizzazione, di scavo del  paesaggio interno del personaggio, di introspezione e di invenzione di una biografia immaginaria, di improvvisazione e di elaborazione dei suoi pensieri, dei suoi stati d’animo, delle sue associazioni, delle sue intenzioni, un bagaglio prezioso di immagini e ricordi. Al tempo stesso ho “scoperto”, ho scoperto per me, in relazione al  rapporto maieutico che si instaura con l’attore, che è molto importante inserire questo processo di elaborazione interiore in un flusso continuo, in una corrente di reazione autentiche, di impulsi, di risposte e di intenti fortemente legate al “qui e ora”. Sempre più spesso, perciò, dopo la fase di studio, di avvicinamento, di appropriazione del personaggio, di “immedesimazione”,  di articolazione in una struttura definita,  incito gli attori con cui collaboro, allievi o professionisti, a vivere reazioni concrete alle circostanze esterne. “Ascolta, ascolta veramente, ascolta ogni parola, scruta le espressioni del viso, apriti verso l’ esterno..”,  oppure  “parla proprio con lui, o con lei, che adesso è di fronte a te, stai attento che ti capisca, osserva l’effetto delle tue parole, cambia strategia..” oppure “cosa ti ha colpito oggi del personaggio con cui interagisci“ , “in che momento ti ha sorpreso? Cosa ti ha toccato?“, “ Quando gli (o le ) hai creduto?“. Se c’è una interazione concreta, vivente, senza buchi, senza interruzioni, se c’è sfida, scontro, gioco,  la presenza risulta allora più viva, più toccante, più interessante, cioè più capace di suscitare un interesse di tutto il mio essere. E’ qualcosa di percepibile, di evidente. C’ è un'altra luce. I ritmi diventano più vari, più sapienti, più credibili, e al tempo stesso più “naturali”. C’è una base costruita, definita nei particolari, e un presente in cui irrompe la vita del momento, uno scoprire.

Anche qui, per trovare la vita segreta di un azione autentica, di una azione intera, integrata, si pone  un problema di equilibrio tra l’energia che va verso l’interno, collegata alle memoria emotive, e l’attenzione concreta, non generica, non finta, verso l’esterno. E’ necessario un movimento dall’interno verso l’esterno, e dall’esterno verso l’interno. Dal fondo del nostro essere verso il prossimo che abbiamo di fronte, e dalla realtà viva che ci circonda fino alle fibre più profonde di noi stessi. E, paradossalmente, questo tratto personale diventa allora collettivo, archetipico, interumano, connesso con l’umanità, con la nostra condizione esistenziale elementare, con la nostra pasta umana, con le sorgenti della nostra vita psichica e organica, con le radici della nostro essere. Una possibilità meravigliosa di abitare completamente l’esperienza.  La sincerità, in fondo, è una scienza.

Gioacchino Palumbo

 

 

 

 

 


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