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a conclusione dei laboratori

Verso “Arche-drama”,  l’azione primaria originaria.

(Da Gioacchino Palumbo “Il teatro del Molo 2 – Diario di bordo – Laboratori e Studi drammatici “ edizioni Bonanno.) 

Impegnarsi in un progetto creativo, se è veramente tale, comporta sempre una attitudine alla “scoperta” di qualcosa. Per quanto mi riguarda un processo di creazione ha senso solo se è anche un processo di ricerca, di crescita personale. In altre parole se è in gioco la possibilità di scoprire qualcosa su di sé, sugli altri, sul mondo che ci circonda. Scoprire, riscoprire, o “ricordare”, (anche nel senso etimologico di ri-accordare, ri-armonizzare), di vedere con più chiarezza.

 

Non si tratta necessariamente di trovare risposte, di enunciare verità, ma di rendere più acute le domande, di coltivare la nostra capacità di guardarci dentro, di osservarci, di non mentirci, di liberarci da false idee e pregiudizi. La crescita personale, se è veramente tale, non è solo un accumulo di conoscenza (come sottolinea Gurdijeff), perché lo sviluppo della conoscenza è intimamente connesso allo sviluppo del nostro essere. Se c’è uno squilibrio tra evoluzione dell’essere e evoluzione della conoscenza, la nostra conoscenza sarà vana, inutile, persino controproducente.

Un certo tipo di teatro, un teatro ideale, forse utopico, proprio per le sue caratteristiche specifiche di incontro vivente, di partecipazione psico-fisica, può rendere più armonica l’evoluzione della linea della conoscenza con l’evoluzione del nostro essere. La creazione di uno spettacolo mi interessa se diventa anche una occasione di crescita e di esplorazione.

 

Brecht era interessato soprattutto agli aspetti socio-politici ma, nella sua enunciazione del “dramma didattico”, sottolineava come la messa in scena di uno spettacolo fosse, come istanza fondante, una occasione per imparare per i realizzatori dello spettacolo, prima ancora che un veicolo per “insegnare” al pubblico. È chiaro che questo orientamento è più o meno possibile a secondo delle condizioni produttive, ma non può mai mancare del tutto.

Rispetto alle produzioni professionali, a volte condizionate da tempi un po’ ristretti, i laboratori e gli studi drammatici sono indispensabili proprio per essere più liberi dalle esigenze finalizzate al prodotto finito. Per poter così soffermarsi su nodi, temi, direzioni di lavoro, approfondimenti che, almeno apparentemente, non sono indispensabili alla messa in scena finale. Per questo, nei laboratori, in alcuni casi è utile non essere “obbligati” alla messa in scena finale, che può essere vista solo come un momento possibile di confronto, di verifica, di apertura del lavoro interno.

 

Da questo punto di vista il mio “Progetto Archedrama” è un modo per portare alle estreme conseguenze questo orientamento.

“Arche” come principio, origine, elemento primario. E “drama”, che in greco antico significa azione, atto umano, che deriva dalla radice “dran”, che sottolinea l’intenzione dell’agire più ancora che l’ azione stessa o i suoi risultati. Drama è l’azione e l’intenzione che la precede. È un’azione consapevole. Non a caso, forse, le parole dramma, drammatico, derivano da “drama” e non da altre parole, più o meno dei sinonimi, come “poiein”, che significa fare, agire ma senza la connotazione dell’intenzionalità.

Il progetto Archedrama non si prefigge né di creare una performance conclusiva né di far acquisire tecniche teatrali specifiche. Archedrama è invece un luogo privilegiato, un incontro, esclusivamente finalizzato alla espressione, alla crescita personale, alla evoluzione della consapevolezza.

Alcune delle tecniche e delle psicotecniche proposte sono le stesse che utilizzo nei laboratori teatrali e che derivano da ricerche di Stanislavskij e Grotowski, ma sono proposte con un’altra finalità, che non è quella teatrale.  Sono quindi tecniche di introspezione, di espressione, riplasmate per favorire un percorso interiore.

Molto importanti e centrali, in questo caso, le pratiche integrative, che permettono cioè di integrare il livello corporeo e motorio, il livello emotivo, il livello intellettivo – cognitivo.

 

L’obiettivo è mettersi a contatto con se stesso e con l’altro integrando questi tre livelli, corporeo, emotivo, intellettivo.

Molte pratiche sono quindi basate su specifiche tecniche di rilassamento e di movimento, spesso derivate da discipline orientali che ho appreso in India, da esperienze nei gruppi che seguono l’insegnamento di Gurdijeff, da esperienze nell’ ambito delle psicologie e delle psicoterapie umanistiche applicate alla evoluzione personale, come quelle con Naranjo e Zalkman, e, naturalmente, dal training di Grotowski e Barba.

Per molti anni ho utilizzato in maniera molto sobria la verbalizzazione, la riflessione sulle esperienze, le improvvisazioni, le inter-relazioni, preferendo spesso il silenzio e l’auto-riflessione spontanea. Solo dopo molti anni di lavoro, e con gradualità e cautela, ho inserito, in alcune specifiche esperienze di Archedrama, quelle rivolte a insegnanti e operatori psicosociali, le verbalizzazioni, dei momenti di confronto, espressione verbale, analisi, cercando di evitare che il livello verbale razionalizzasse in modo eccessivo esperienze che avevano invece bisogno di essere protette, di crescere gradualmente.

Ma ho “scoperto” con sorpresa che in alcuni gruppi la verbalizzazione poteva diventare un momento di evoluzione, di chiarificazione, di approfondimento anche emotivo e non di dispersione e di facile razionalizzazione.

 

Ho scoperto soprattutto il grande potere evocativo che hanno alcune semplici azioni corporee, se sono eseguite in una condizione di vero ascolto.

Alcune di queste “azioni” sono eseguite individualmente, come alcune tecniche di rilassamento, di ascolto profondo delle sensazioni corporee, di percezioni di movimenti lenti e coscienti, di posture, di “mudra”, di impulsi. Altre azioni si basavano  sull’interazione, l’apertura, lo sguardo, la percezione di sé e dell’altro. Altre invece sgorgavano dall’energia di tutto il gruppo, presupponevano il sentirsi parte di una azione collettiva.

“Archedrama” è stato anche il tentativo di liberare il lavoro di ricerca dalla pressione del prodotto finale per offrire la possibilità di dedicarsi al lavoro su di sé di cui parla, tra i tanti, Stanislavskij, o di cui tratta Grotowski quando teorizza il  “doer”, l’ attuante, colui che padroneggia l’ azione,  ma non è più un attore. Qualcuno cioè che compie delle azioni non per produrre un impressione su chi guarda ma per attivare un processo di autotrasformazione in chi le esegue, in chi le fa. Cioè su se stessi. Che è un aspetto implicito in molte meditazioni dinamiche, come in quelle di Osho, ad esempio, o nelle prodigiose danze sacre di Gurdijeff, che ho avuto la fortuna di praticare per qualche anno.

Al centro del lavoro c’è l’esperienza diretta, personale e non obbligata, di alcune pratiche. Ma un esperire consapevole, che presuppone una qualità di attenzione il più alta possibile, una attenzione aperta, intensa e rilassata a un tempo, e una qualità di presenza a se stessi e all’altro diversa da quella, spesso inerte, che utilizziamo quasi sempre nel nostro vissuto quotidiano.

Esperire. Abitare l’ esperienza. Con la parte più essenziale di noi stessi, essere presenti.

 

Alcuni workshop del progetto “Archedrama”  sono stati dedicati al movimento e alla consapevolezza corporea, altri alla riscoperta del rapporto con la voce, altri ancora alla sperimentazione della parola poetica o del racconto. Il progetto ha preso forma, con corsi annuali,  da ottobre a maggio, nella sede del Teatro del Molo 2, per espandersi, attraverso stage  in forma intensiva, in sessioni di lavoro svolte in diversi contesti e diverse sedi:  a San Pietroburgo, in un progetto di danze meditative curato da Amyo,  a Valencia, con la cura di Martina Botella, a Cagliari, con la cura di Gabriella Figus, a Siena, con la cura di Angelo Contarino,  ad Agrigento, a Militello, a Viterbo,  alla Scuola di Psichiatria della Università di Catania, con la cura degli psichiatri Pina Salomone, Caterina Iudica e Nino Fallica. I progetti più articolati si sono realizzati, oltre che  al  Molo 2, a Caltagirone, nella comunità terapeutica “La Grazia”, con la cura di Riccardo Mondo, e a Ragusa, promossi da Valeria Cascone  e da un gruppo molto motivato di insegnanti del M.C.E.

 

 

 

 

 


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